Convegno: “1951-2021. L’enigma di Caravaggio. Nuovi studi a confronto”
Nella giornata di oggi 12 gennaio 2022 si è aperta on line la prima sessione del Convegno “1951-2021. L’enigma Caravaggio. Nuovi studi a confronto”, ideato da Sergio Rossi, con il coordinamento di Rodolfo Papa e articolato in cinque giornate programmate nel mese di gennaio 2022. L’argomento memora la continuità nel cambiamento degli studi caravaggeschi a partire dalla mostra del Caravaggio del 1951, che segno’, come ha ricordato ancora una volta Silvia Danesi Squarzina, l’indipendenza delle conclusioni critiche di Roberto Longhi e di Lionello Venturi.
In prima giornata è stato dedicato ai temi ‘Caravaggio e la fede’, moderato da Barbara Jatta e ‘Moralia’, moderato dallo stesso Sergio Rossi: per i lettori di Archeomatica diciamo subito che chi voglia collegarsi nei prossimi appuntamenti, tecnologia permettendo, dovrebbe poterlo fare iscrivendosi tramite il web. Per chi non lo ricordasse Sergio Rossi è stato il primo a sostenere nel David e Golia della Galleria Borghese l’idea di un doppio autoritratto di Caravaggio nel lontano 1994, relatore al Convegno internazionale di studi ‘Michelangelo Merisi da Caravaggio’, riconoscendo in entrambe le due fisionomie del quadro il volto stesso di Caravaggio. Nel bipolarismo espressivo, tra il bene ed il male e tra la vita e la morte, della chiave soteriologica, in cui è trionfatore l’adolescente David, Caravaggio oscilla all’uomo maturo che ha dietro di sé un’esistenza burrascosa e una fuga a Roma. La sua redenzione non è ancora un affare di stato e soprattutto il suo Golia rispecchia il testo biblico che lo voleva cadavere, sperimentando sulle proprie fattezze il disfacimento che anche D’Arpino nell’analogo soggetto della Villa Aldobrandini a Frascati aveva oscurato con l’ombra, ma non le rughe per la vecchiezza.
Il piccolo riassunto che segue non pretende di essere un resoconto di quanto dibattuto o una cronaca, ma l’esposizione, il più possibile succinta, di una serie di indizi fermamente cristologici della sua opera, messi in evidenza da numerosi relatori, quali testimonianza della fede cattolica del pittore. Premesso che il tema profondo del convegno, come ha messo in luce Dalma Frascarelli, verte sul criterio della verosimiglianza caro al cardinale Gabriele Paleotti e al suo Discorso intorno alle immagini sacre et profane, cui seguirà, alla fine del Cinquecento, l’altro suo Libro del bene della vecchiezza, bisogna dire che Caravaggio visse a Roma gli ultimi cinque anni di quel secolo, ma non raggiunse mai l’età dell’onorata vecchiaia e, ci sarebbe da esserne altrettanto convinti, che non fu per la propria inquietitudine se non poté arrivarci. A questa piccola, ma non così tanto, Commissione d’inchiesta, alla quale gli ascoltatori sono stati più di trecento (ed erano giovani e forti), Umberto Eco avrebbe risposto che la verosimiglianza del cardinale, a dispetto di tante parole, non si vede, mentre la differenza tra la capacità di astrazione di Annibale Carracci e quella di Caravaggio è evidente con due soli dipinti a confronto tra loro, cui più di un relatore ha fatto riferimento, e che rappresentano l’analogo soggetto della Madonna di Loreto. I due quadri sono obbiettivamente esemplari, al punto tale da essere scolastici o, se è preferibile, didascalici, del divario creativo tra i due giganti del secolo tra gli artefici della verosimiglianza di cui discettava Paleotti. Non c’è dubbio che essi raffigurino entrambi la Santa Casa di Loreto, come hanno esposto sia Bert Treffers che Daniel M. Unger, situata iconologicamente tra Nazareth in Palestina e la Basilica di S. Maria di Loreto in Italia, nelle Marche. Come non vi è dubbio che la Santa Casa nel dipinto di Carracci voli ariostescamente, sorretta da angeli, in un cielo metafisico e, sotto di lei, sia alleviata dal bambino, che versa acqua sulle nubi, la pena di un dannato. Nemmeno vi è dubbio che la Madonna con il bambino di Caravaggio sia invece atterrata sulla porta di casa sua – qualunque fosse la sua chiesa, compresa quella di S. Agostino a Roma, per la quale il dipinto fu realizzato nella cappella di Ermete Cavalletti e in cui è la tomba di Monica, la madre di S. Agostino che lo accompagnò in pellegrinaggio a Roma, dipinta vecchia da Caravaggio – vistosamente colorita in un paesaggio urbano che denota l’accoglienza del bambino proteso sui pellegrini scalzi.
Non sta a noi dire se a modello della Vergine potesse essere o meno una meretrice, nell’uno e nell’altro, e di professioniste del sesso che soggiornavano in cielo anche l’ortodossia della chiesa ne ha annoverate più d’una, e su questo argomento Rodolfo Papa ha dedicato un inciso. Uno stimolo rilanciato anche da Antonino Saggio, del comitato scientifico di Archeomatica, nella Lectio magistralis ‘Caravaggio Dal Basso verso l’alto’ al Macro Asilo nel 2019. Nemmeno sapremmo dire francamente quale fosse la donna amata dai pittori e ritratta nella Vergine nel 1604 (eccetto, in argomento per Caravaggio, anche dalle pagine di questa rivista, Lena Antognetti, tale anche recentissimamente, con qualche perplessità, per Sergio Rossi nell’articolo Caravaggio e l’immagine scandalosa della Vergine, su About Art 2021 in versione scaricabile), se una donna di strada o una cortigiana, o l’uno e l’altro, e se l’amore per la stessa donna, o per lo stesso uomo, che sia ritratto manifestamente nel pellegrino, suscitasse la gelosia di un qualche uomo di potere, fosse pure un cardinale, né che i due dipinti fossero o meno verso i pellegrini mendicanti ai suoi piedi, per queste od altre ragioni, omofobici. Se mai, discutendo dalla premessa gli interventi che ne hanno parlato, eccezionale era raffigurare nei pellegrini, due Santi: S.Agostino e sua madre, S. Monica. Entrambe le Madonne sono idealizzate in cielo e in terra e compassionevoli. Quel che li unisce è proprio la festosità degli apparati e la grazia della Vergine, che non disdegna i dannati, gli infedeli e chi ha perduto la fede nello stato d’animo di gioiosità che sostanzia l’amore per il prossimo, anche quando dipinsero in basso l’uno l’inferno e l’altro il deretano del pellegrino, cioé l’invisibile. Certo è che in nessuno dei dipinti analizzati nella giornata, nemmeno nella Madonna dei Palafrenieri, vi sia una qualche allusione al celibato di un ministro di Dio o all’ossessione della castità che tende a svanire con la vecchiaia. Per entrare nell’analisi di Dalma Frascarelli delle Sette opere di misericordia di Caravaggio al Pio Monte della Misericordia, se non ne e’ frainteso l’intervento, ci sarebbe da dire che un chiaro emblema della Carità cristiana raffigurata da Caravaggio in tutta l’immensa tela è il sacchetto dei turiboli in primo piano sul bordo della cornice, proprio sopra all’iscrizione marmorea del breve al Pio Monte della Misericordia del pontefice Paolo V: entrambi, sacchetto e lapide, nascosti alla vista dall’altare della cappella. Come ci sarebbe anche da dire che gli exempla della carità cattolica, se proprio si volesse trovarli, nel dipinto ci sono tutti, da quelli propriamente laici, a quelli greco-ortodossi, a quelli ebraici e luterani, ai controriformati, nei più rappresentativi Santi della rinuncia ai beni terreni, e perfino in odore di eresia nella missione di ‘propaganda fidei’ dei legati apostolici, e per finire a quelli dei ministri di Dio, tra cui il chierico con la cotta e il lume, verosimilmente di candela, che officia un cadavere trascinato fuori dalla prigione, di cui è custode. Ed aggiungere che è proprio questa moltitudine ad essere avvolta dal vortice di misericordia della Vergine. Quanto a condanne ricevute, Caravaggio nel 1606 non era stato graziato dalle sue, ma nemmeno potrebbe dirsi per questo, anche in rapporto ai documenti biografici, che fosse un milanese perseguitato pure a Napoli perché meridionalista o un aristocratico licenzioso perché fratello di latte di Fabrizio Sforza Colonna o un frate domenicano come Giordano Bruno o un obbiettore di coscienza come Galileo Galilei, dati autobiografici che possono consistere nei suoi dipinti, ma tra i quali non vi è alcuna gerarchia dottrinale o sociale. Aveva soltanto dipinto le Sette opere di misericordia e la Madonna del Rosario che illustravano, ma non solo, la vita fraterna predicata dai cattolicissimi domenicani, un ordine contraddistinto da un rigore considerevole e, proprio per questo, punto di riferimento anche di personalità dissidenti che gli avevano dato da dipingere, non da vivere, poiché era della sua professione che viveva e, bisogna dire, sopravviveva.
A proposito della Madonna dei Palafrenieri la relazione di Andrea Lonardo ha illustrato lo scenario che privò i Palafrenieri della loro cappella nella Basilica Vaticana, abbattuta per volere di Paolo V nel 1605, senza osservare però che gli stessi avevano una chiesa in Vaticano con il titolo di S. Anna dei Palafrenieri, annessa alla Penitenziaria e alla quale si accede dall’ingresso alla città del Vaticano che ha lo stesso nome, voluta per la comodità del transito anche processionale del pontefice e dei cardinali fuori dai palazzi pontifici. Lonardo ha inoltre esposto la sua scoperta: il fatto che nella Crocifissione di S. Pietro della Cappella Paolina in Vaticano, la testa del Santo di Michelangelo Buonarroti è rivolta all’indietro, volgendo lo sguardo verso l’altare e non verso la porta della cappella dove officiante era il pontefice. Dimostrando anche che Caravaggio avesse avuto accesso alla cappella privata del pontefice, dal momento che, nella seconda Crocefissione di S. Pietro della Cappella Cerasi in S. Maria del Popolo, rese la figura del Santo, perfino nella torsione della testa, diametralmente speculare a quella di Michelangelo. La sua relazione è stata molto istruttiva e allo stesso tempo, per essere lo studioso un monsignore e un uomo di fede, la meno preoccupata di persuadere gli ascoltatori sulla fede cattolica di Caravaggio. L’unico ad accennare ad una fede interiore, personale e alla possibilità che non fosse la sua fede a far rifiutare ai padri Carmelitani di S. Maria della Scala la tela della Morte della Madonna e la prima delle due tele dipinte da Carlo Saraceni con il medesimo soggetto per la chiesa, ma considerazioni legate alle loro dimensioni. Fatto che coincide con una fonte cronologicamente primaria sull’opera di Caravaggio che è Giulio Mancini, il quale nel Discorso del 1608 affermò che vi avesse dipinto morente una “meretrice sozza degli Ortacci”, per di più visibilmente incinta, avanzando il rifiuto dei Padri ad un periodo di breve esposizione nella chiesa.
Bert Treffers, partendo dall’analisi del dipinto dell’Ercole al bivio tra virtù e vizio dei Carracci, oggi al Museo di Capodimonte, ha illustrato la Vocazione di Matteo di Caravaggio della Cappella Contarelli a S. Luigi dei Francesi e la centralità del chiamato Matteo al tavolo dei gabellieri che punta l’indice verso se stesso, rispondendo a quanti, tra cui Sara Magistris, hanno inteso riconoscerlo invece nel giovane contabile alla sua destra. La modestia del pubblicano Matteo nello schermirsi al prorompente gesto della chiamata di Cristo è sottolineata proprio dall’immediatezza della sua fede che intraprende la via dell’apostolato da una condizione etica di apparente indegnità. L’equilibrio di Matteo nella seconda tela di S. Matteo e l’angelo sull’altare della cappella, dimostra la missione terrena evangelica dell’apostolo all’apparire dell’angelo, mentre si sorregge perfettamente in bilico sull’oscillazione dello sgabello sporgente verso gli astanti, e che sta per cadere: sulla parola di Matteo si puntella la chiesa intera, uno sgabello vacillante sotto i suoi piedi.
Silvia Danesi Squarzina ha aggiunto che la scena si svolge in esterno, ribadendo quanto sostenuto in altra sede da Claudio Strinati, e cioé che la finestra sulla parete alle spalle di Matteo è dotata di una persiana e, sorvolando sul fatto che il dettaglio in piena luce appare essere invece uno scuro di finestra posto all’interno di un’anticamera, elemento che le finestre seicentesche di ambientazione romana ancora oggi mostrano, ha messo in luce un Caravaggio pedissequo alle indicazioni del cardinale Matteo Contarelli, accluse al contratto stipulato per la Cappella nel 1591 con il Cavalier D’Arpino, per il quale la Vocazione, che sarà dipinta da Caravaggio, doveva essere rappresentata in esterno, sulla strada.
Sempre Danesi Squarzina ha proseguito con l’Incoronazione di spine Giustiniani al Kunsthistorisches Museum di Vienna, museo al quale il dipinto fu venduto dai Giustiniani nel 1810, come documentato da Wolfgang Prohaska. La provenienza Giustiniani del dipinto non ne garantisce l’autografia caravaggesca, ma la scoperta del suo intero percorso collezionistico, più che entusiasmante anche per chi a suo tempo fosse ancora un bambino, non merita un’insistenza sulla caratteristica della tela di essere un quadro da sopraporta e come tale inventariato nel 1638 nella raccolta di Vincenzo Giustiniani: il termine ‘sopraporta’ significa che il formato del quadro sia tale da occupare lo spazio sopra una porta, e dipende dalle dimensioni della porta se sia anche ad andamento orizzontale o meno: le tele d’imperatore, se non altro, erano a loro volta dei sopraporta. E’ doveroso dibattere che le figure, gigantesche per la dimensione della tela, anche per essere viste dal basso, occupano la sua intera superficie senza lasciare che uno spicchio di spazio privo di orizzonte: non è possibile avere la stessa fiducia negli strumenti della sua arte che è riposta nella sua fede. Ha raffrontato poi la figura del soldato in primo piano nel dipinto, che dovrebbe essere Anania, non proprio o non ancora un sommo sacerdote, con l’uomo armato ai piedi della Crocefissione di S. Andrea, in cui s’identifica il proconsole Egeas di Patrasso e infine evidenziato in questa seconda tela il gozzo della vecchia donna ai piedi della croce, presumibilmente la madre di Simone e Andrea, che è anche il gozzo della vecchia Abra nella Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini, spiegando che l’ipertiroidismo aveva avuto un’ampia diffusione nel bergamasco, dove Caravaggio visse il primo tempo della sua vita, rimanendo impresso nella mente del giovane pittore. Non è possibile identificare la tela con l’Incoronazione di spine dipinta nel 1605 per i Massimo, senza prendere in considerazione il fatto che riduce nel taglio a mezze figure l’inventiva della Flagellazione di S. Domenico Maggiore al Museo di Capodimonte, che pure rappresenta un’Incoronazione di spine di Cristo mentre è flagellato. E che quest’ultima, più che ricca di ripensamenti in corso d’opera rivelati dalle radiografie, poteva essere proprio la stessa già dipinta per i Massimo nel 1605 e rifiutata per un’altra dello stesso formato da realizzare, dovendo la definizione del soggetto di Flagellazione per la prima volta a Giovan Pietro Bellori, quando anche a Napoli poteva aver subito più di uno spostamento da parte degli acquirenti, i banchieri De Franchis.
Rodolfo Papa ha inoltre concentrato la sua attenzione sul S. Giovanni Battista di Caravaggio dei Musei Capitolini, dandone un’identificazione iconografica con Isacco Salvato, per la sua completa nudità, la presenza dell’ariete invece dell’agnello, il dettaglio del colore rosso portato in luce da un recente restauro, che sarebbe la fiamma di una pira sacrificale e non un particolare del manto su un sasso, l’assenza del bastone. L’albero sul quale è arrampicato, in effetti, lo testimonia ilare, divertito dal moto ascendente per aver acciuffato il capro che contraddistingue Isacco nell’essere scampato al sacrificio: un primitivo in costume adamitico disceso dal primo uomo sulla terra, quale era il biblico Isacco, famiglia nella quale il precursore Giovanni Battista poteva essere immediatamente identificato e designato quale catecumeno e competente, futura vittima sacrificale per aver battezzato Cristo e denunciato Erode. Abbracciato a Cristo nell’ariete, volgarizzato messaggio del sermone agostiniano (Sermo 19, 3) citato da Papa e del preconio pasquale di resurrezione della carne.
Nel S. Giovanni Battista della Galleria Borghese a confronto, però, la nudità non è integrale, poiché i genitali sono coperti ha osservato Papa, e ci sono autori del Seicento che hanno fatto la medesima osservazione, sentimentalmente più vicini ai significati caravaggeschi, aiutandoci a distinguerli l’uno dall’altro e l’ariete è sempre un ariete, o un agnello cresciuto, anche se il Battista è uno statico pastore che si appoggia al bastone. La considerazione di Papa che il manto della pecora sia dorato come il vello di Frisso e degli Argonauti, dibattendo, può spiegarsi tecnicamente tanto con un voluto riferimento alla cultura classica quanto con un’allusione alla preziosità della lana dell’armento, che vicino alla pelle dell’animale assuma un colore ambrato e denoti una condizione regale della dinastia del Santo.
Marco Bussagli ha infine discusso il Fruttarolo o Ragazzo con il cesto di frutta della Galleria Borghese come opera prima del periodo romano. Bussagli controbatte l’identificazione del modello in Mario Minniti desunta da un’incisione tratta da Giuseppe Grosso Caccopardo, sulla scorta della biografia di Minniti di Francesco Susinno, senza dare risalto al particolare fisionomico del collo lungo, sul quale l’identificazione si poggia. Difficile è apprezzare la somiglianza di Minniti nel Fruttarolo con il volto, a capo chino, del personaggio del tribuno Valerio nel Seppellimento di S. Lucia del Santuario di S. Lucia al sepolcro, sulla base della quale è possibile riconoscere una qualche felicità all’intuizione brandiana, resa plausibile dalla testimonianza di Caravaggio al processo Baglione del 1603, secondo la quale un certo pittore di nome Mario lo aveva abbandonato nel 1600, e che fino a quella data, perciò, lo attestava suo collaboratore. L’impegnativo studio anatomico di Bussagli, che letteralmente scopre l’inaudito scorcio delle punte delle dita della mano sinistra del ragazzo alla base del cesto, dimostrando che l’azione di portarne il peso accentuasse l’incavo della contrazione del muscolo deltoide nello sforzo compiuto (presumibilmente il sollevamento di 8 kg. di peso), verte a mostrarne l’esecuzione allo specchio: con un braccio in tensione nello sforzo di sostenere il cesto e con l’altra mano in quello di dipingere la fisionomia e l’anatomia corretta risultante in uno specchio posto alla parete. La pratica dello specchio, da molti critici risaltata nel Bacchino malato della Galleria Borghese, fin dall’esordio romano e dall’apprendistato con Simone Peterzano a Milano, era congeniale al pittore, afferma Bussagli. L’alternanza di fasi con l’intervento del modello e l’uso dello specchio in completa autonomia di esecuzione, che raggiunge l’effetto di una simultaneità da istantanea fotografica sempre riconosciuto al pittore, presume un prolungato tempo di posa del cesto su un tavolo per l’osservazione dei dettagli con accuratezza: tavolo che non è raffigurato in questo ritratto, assumendo il cesto la simbolicità di un ostensorio.
Molti relatori, non solo Bussagli a chiusura del convegno, hanno parlato della conformazione del ginocchio del Bacchino malato, che nel 1989 Kristina Hermann Fiore, come ha ricordato anche Sergio Rossi nel 1994 e in questa sede di dialogo, per prima ha posto in rapporto con la xilografia dell’Ecce Homo di Albrecht Dürer nell’illustrazione del titolo della Grande Passione. Indubbiamente il risalto anatomico identitario con la statica figura di Cristo di Dürer è più apprezzabile se posto a confronto con le gambe divaricate, altrettanto statiche, dei disegni del Cristo deposto di Simone Peterzano del Taccuino dell’Ambrosiana, come ha fatto in questa sede Silvia Danesi Squarzina, sottolineando che le gambe del Bacchino malato non sono accavallate. In realtà Fiore illustrava l’analogia dell’uso del piano prospettico della pietra angolare nella xilografia, che è statica, e del tavolino nel Bacchino malato, persuasivo della dinamica caravaggesca, come nello sgabello traballante del S. Matteo e l’angelo della Cappella Contarelli. Nel Bacchino malato il gomito tende a poggiarsi sul tavolo e a fare altrettanto da puntello nella mossa del giovane che sta per accavallare le gambe, cogliendone il movimento nell’emozione sincretica che rompe il silenzio dell’offerta bacchica, per far posto alla parola: la verità di Cristo proteso.